Istantanea numero uno: un bambino sulle spalle del papà con la maglietta "I’m a little Boss" canta Born in the U.S.A.. Istantanea numero due: una signora sulla settantina strattona affettuosamente il marito: “Te la ricordi, è la nostra canzone?”. E si mettono a ballare insieme. Istantanea numero tre: una ragazza incinta sulle note di The River si siede e si accarezza la pancia, quasi ad arruolare tra i fan di Bruce Springsteen il bimbo che ancora deve nascere e già si sta godendo un concerto indimenticabile. Istantanea numero quattro: una fan sotto il palco issa un cartello che il Boss raccoglie e mostra compiaciuto: “2013: mia sorella. 2016: i miei nipoti. E stasera io”.
Basta scorgere i volti dei sessantamila di San Siro che si scatenano sulle note di Dancing in the Dark per capire che il famigerato “popolo di Bruce Springsteen” sfugge a ogni classificazione sociologica: anziani, giovani, bambini. Un popolo formato famiglia? Sì, certo, se una fan posta su Facebook il video del figlio che balla sotto i suoi occhi con la fidanzata mentre il Boss si concede un bagno di folla cantando Hungry Heart. I due fidanzatini, va da sé, quando Springsteen scrisse questa canzone non erano neanche nati. Ma è questa la magia della grande musica: unire le persone in un tempo sciagurato che coccola muri e divisioni, far ballare insieme padri e figli, raccontare (lo fanno sempre i fan di vecchia data del Boss) ai figli e ai nipoti «quella volta al concerto che ho conosciuto quella bella ragazza e poi non l’ho rivista più» in un filo di memoria che tiene insieme le generazioni e il senso stesso dello stare insieme.
Quattro ore filate di concerto con Bruce Springsteen che alle soglie dei 67 anni fa l’istrione sul palco facendo balzare sulla sedia tutti sono un fatto bello, non un evento. Un fatto bello della musica rock, della vita. Perché sotto il sole bruciante di San Siro, trentun'anni dopo la prima volta del Boss in questo stadio, si trovano a chiacchierare insieme un gallese e un inglese, forse di Brexit, come se fossero vecchi amici. O un americano e un’italiana rientrata appositamente da Londra per non perdersi il concerto.
Un momento del concerto di Bruce Springsteen a San Siro il 3 luglio. Si replica martedì 5 e poi il 16 luglio al Circo Massimo di Roma
C’è la generosità del performer, come dicono i critici, che ammicca al pubblico e poi apre idealmente l’album di famiglia: «Questa è la mia prima canzone ispirata ai figli», dice in italiano mentre partono le note di Independence Day, a poche ore dalla festa dell'indipendenza americana. In bilico tra epica e malinconia e voglia frizzante di ballare, quattordici canzoni (sulle venti totali) appartengono a The River, che dà il nome al tour ed è l’album con il quale 36 anni fa Springsteen abbandonò quasi definitivamente il rock più ottimista della prima parte per raccontare la vita dura degli sconfitti e i loro tentativi di aggrapparsi all’American dream. Tutto il contrario del protagonista di Thunder Road (1975): «It’s a town full of loser and I’m polling out of here to win» («questa è una città piena di perdenti, me ne vado perché voglio vincere»), quando gli States dopo una crescita arrembante erano inciampati nella crisi petrolifera ma c’era ancora la speranza (e la voglia) di farcela.
Non è certo un caso se i sessantamila di San Siro salutano l’inizio del concerto con una coreografia coloratissima e piena di speranza: “Dreams are alive tonight”, i sogni stasera sono vivi. Quelli che la politica, certa politica, non riesce a regalare più, né le leadership di cartone che si fanno e si disfano nel breve tempo di una campagna referendaria. Ci riesce, e da anni, Bruce Springsteen a ogni concerto, nell’America più profonda come in Europa. Come? Facendo riunire e ballare insieme le famiglie, i genitori con i figli, i nonni con i nipoti. E scusate se è poco.