Stavolta Eduardo non avrebbe detto che «è cosa ‘e niente». Perché tutto, o quasi, si poteva immaginare in una città focosa come Napoli ma non che San Gennaro potesse ritrovarsi in mezzo alle carte bollate del Tar, protagonista di una pañolada (lo sventolìo di fazzoletti bianchi tipico dei tifosi spagnoli quando protestano contro le prestazioni sgradite dei propri campioni) sugli spalti del San Paolo e di un flash mob davanti al Duomo al grido di popolo: “Giù le mani da San Gennaro”. Fino all’approdo in Parlamento con due interrogazioni firmate da Anna Maria Carloni del Pd, moglie di Bassolino, già sindaco della città dal ’93 al 2000, e dai parlamentari campani del Movimento 5 Stelle (prima firmataria Vega Colonnese), rivolte sia ad Alfano che a Matteo Renzi. Ma che c’azzeccano il premier e il ministro degli Interni con San Gennaro? Il nodo sta in un decreto del Viminale che modifica statuto e status giuridico della deputazione di San Gennaro, l’organismo che dal 1601 custodisce le ampolle del sangue del prodigio ed è titolare della Cappella e del Tesoro del Patrono, uno dei più ricchi d’Europa se non del mondo grazie ai doni di valore fatti nei secoli da principi, nobili e re.
In base a questo decreto la deputazione verrebbe trasformata in Fabbriceria (gli enti che provvedono alla conservazione e mantenimento dei beni di luoghi sacri di particolare valore artistico) con un consiglio di dodici membri di cui otto riservati ai laici – come accade ora – e altri quattro di nomina dell’arcidiocesi di Napoli. Dalla deputazione gridano all’ingerenza della Chiesa. E dalla Curia, retta dal cardinale Crescenzio Sepe, fanno sapere che per ora non c’è nulla da commentare. All’arcivescovo, spiegano, non è stato ancora notificato il decreto del Viminale e quindi non ha senso fare alcun commento. «Come dice la Bibbia, c’è un tempo per parlare e uno per tacere», ha detto Sepe ai giornalisti che lo incalzavano, «quando sarà il tempo di parlare, lo farò. E parlerò molto».
La deputazione (il nome completo è Real Deputazione del Tesoro di San Gennaro) è un organismo laico nato nel gennaio 1527 per la costruzione e la conservazione della Cappella del Santo con un consiglio di membri scelti tra i rappresentanti dei Sedili (le vecchie municipalità o quartieri), quasi tutti di estrazione nobiliare, più altri due membri espressione del popolo. Uno dei membri, a turno, durante la festa del Patrono ha il compito di annunciare solennemente alla città l’avvenuta liquefazione del sangue sventolando un fazzoletto bianco. A presiederla è il sindaco della città.
la Cappella del Tesoro di San Gennaro nel Duomo di Napoli
«I custodi laici di San Gennaro siamo noi»
La questione arriva da lontano. Da diversi anni si lavora ad una modifica dello Statuto per adeguarlo ai tempi visto che quello vigente è del 1894. La deputazione, inoltre, nomina l’abate e i prelati della Cappella di San Gennaro che ricevono un compenso economico e riceve dal Comune di Napoli una contributo di circa 70 mila euro all’anno. «Noi non vogliamo gestire il culto di San Gennaro che compete alla chiesa», dice l’avvocato Riccardo Imperiali di Francavilla, membro della deputazione e delegato per gli affari legali, «ma preservare lo status laico della deputazione che risponde al ministro dell’Interno e per quanto riguarda il culto al Vaticano tramite l’arcidiocesi di Napoli». È un fiume in piena, l’avvocato Imperiali di Francavilla: «I custodi laici di San Gennaro siamo noi e chiediamo rispetto. Qui non si tratta di mantenere un privilegio ma un’antichissima tradizione della città di Napoli che ha custodito e protetto il tesoro di San Gennaro per secoli facendolo passare indenne da guerre, lotte di potere e calamità.
La contesa copre almeno cinque secoli di storia e, ricorda ancora l’avvocato, «già nel Seicento diversi arcivescovi volevano intromettersi nel governo della deputazione e dovettero intervenire i Papi». Le bolle papali sono diverse: Paolo V nel 1605, Urbano VIII nel 1635, Innocenzo X nel 1646 e Alessandro VI nel 1661. L’ultimo pronunciamento è di Pio XI nel 1927 che riconosce il «diritto patronato della città di Napoli sulla cappella» che, si legge, «non proviene alla città da un privilegio Apostolico ma da una fondazione e dotazione laicale sorta con i beni patrimoniali e di esclusiva provenienza laicale».